venerdì 21 dicembre 2018

Dov'è?


LEANDRO BASSANO, Annuncio ai pastori, sec XVI/XVII

Natale del Signore

“Vi annuncio una gioia grande”
dice l’angelo ai pastori,
“una gioia per tutto il popolo: è nato per voi il Salvatore”.
Proprio a loro, ai pastori,
gente impura esclusa dal tempio,
viene annunciata una gioia da condividere con tutti;
sì, tutti, anche i puri frequentatori del tempio
dai pastori dovranno ricevere la grande notizia.
La grande gioia tanto desiderata,
la grande notizia tanto attesa…
da essere quasi dimenticata:
un bambino,
il Salvatore.
Solo chi si sente perduto, però,
attende la salvezza e ne aspetta la notizia. I pastori…
Non i puri, non i padroni del tempio,
non i potenti, non i signori della storia,
non chi si crede già al sicuro…
non chi si crede “di Dio”.
Non c’è notizia per chi non attende nulla, non cerca nulla,
se non se stesso e il proprio potere.
Ma dov’è il bambino?
In una mangiatoia: pane per la fame di tutti i poveri,
anche quelli ricchi.
A Betlemme: casa del pane.
Solo gli affamati, poveri e ricchi,
con i pastori lo potranno conoscere.

LEANDRO BASSANO, Adorazione dei pastori


Una stella, dal lontano oriente, avverte e convoca
sapienti che non conoscono gli angeli di Dio,
ma nell’opera di Dio sanno leggere la sua Parola onnipotente.
Ricchi sapienti poveri, affamati anche loro
di bellezza, di amore, di semplicità, di santità, di verità, di pace,
di luce.
Seguono la stella e il desiderio cresce
e l’attesa dell’incontro:
“Dov’è il re bambino?”

ANTONIO BALESTRA, Adorazione dei Magi, sec. XVII/XVIII

domenica 9 dicembre 2018

Ingegneria stradale

Seconda domenica di Avvento C
Bar 5,1-9
Sl 125
Fil 1,4-6.8-11
Lc 3,1-6

A Roma le buche sulle strade provocano innumerevoli incidenti anche gravi. Ma solo a Roma? A Genova cade il ponte e non solo provoca 43 morti, ma divide in due la città. Solo a Genova cadono i ponti?
Intanto già da tempo è iniziata la preparazione "laica" (?!) al Natale: luminarie, alberi addobbati, negozi strapieni di merce e di acquirenti... e conflitti ideologici sull'opportunità o meno di allestire presepi nelle scuole e nei luoghi pubblici, perché potrebbero offendere qualcuno e impedire le buone relazioni e l'integrazione tra culture diverse. E pensare che Colui che è nato nel presepe pretendeva di essere Principe della pace!
Oggi - ma forse sempre - dovremmo pensarci bene prima di andare a messa, perché Dio oggi si presenta come ingegnere stradale deciso a riempire le buche, a rendere piane e sicure le strade, facilmente percorribili. Per noi. E allora potremmo dire: finalmente!
Ma ci sentiamo anche dire, proprio da Dio, che lui non lavora da solo e vuole la nostra collaborazione. Forse per noi, invece, è molto più facile far cadere i ponti e scavare fossi o trincee. E ne abbiamo sempre validissimi motivi: politici, sociali, sindacali, culturali, economici soprattutto (visto che a governarci realmente sono i mercati!), ma anche emotivi e affettivi. Insomma anche Dio deve capire che sì ci piacerebbero le strade spianate e sicure ma, inevitabilmente, siamo costretti a creare fossati. Comunque anche oggi, importante è andare a messa e mettere tranquillo Dio. Poi la Parola di Dio... è bella... ma la vita è un'altra cosa. Stia tranquillo Dio e ci aiuti in ciò che chiediamo, e stiamo tranquilli anche noi e cerchiamo di fare festa a Natale. 
Tanto tranquilli, poi, non stiamo, con le lotte politiche e sociali, con guai economici, con conflitti e divisioni familiari, figli sbattuti da una parte all'altra, violenze di ogni genere, con manifestazioni falsamente pacifiche, odi e rancori e paure e con l'inutile ricerca di una giustizia che cerchiamo dove non c'è.
Ma come comprendere le misteriose parole di Isaia citate dal più misterioso Giovanni Battista, nel Vangelo di oggi?



Ieri, solennità dell'Immacolata Concezione di Maria, in Algeria, sono stati beatificati 19 martiri cristiani, uccisi tra il 1994 e il 1996, dai terroristi islamici, che uccisero anche molti musulmani. Sette di questi martiri erano monaci trappisti del monastero di Notre Dame de l'Atlas a Tibhirine, a sud di Algeri, rapiti in marzo 1996 e uccisi nel maggio successivo. Avevano scelto di vivere in un paese a maggioranza musulmano per essere oranti in mezzo ad altri oranti, per servire i poveri di qualunque religione. Per essere testimonianza di Pace, la Pace che è Gesù Cristo.
Sapendo bene il rischio che correvano in quegli anni di violenze, avevano scelto di rimanere, perché la loro vita era già stata donata e nessuno avrebbe potuto rubargliela.
Il priore, p. Christian de Chergé, francese nato in Algeria, ci ha lasciato il testamento spirituale. Mi pare che sia una vera luce per ascoltare e comprendere la Parola di oggi. E non è che tutti, per appianare le strade della nostra vita nella pace, dobbiamo finire decapitati, ma cominciare a donare la vita nei modi più quotidiani.


Testamento spirituale del Padre Christian de Chergé:

Quando si profila un ad-Dio.
Se mi capitasse un giorno – e potrebbe essere oggi – di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia, si ricordassero che la mia vita era “donata” a Dio e a questo paese. Che essi accettassero che l’unico Signore di ogni vita non potrebbe essere estraneo a questa dipartita brutale. Che pregassero per me: come essere trovato degno di una tale offerta? Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato.
La mia vita non ha valore più di un’altra. Non ne ha neanche di meno. In ogni caso non ha l’innocenza dell’infanzia. Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male che sembra, ahimè, prevalere nel mondo, e anche di quello che potrebbe colpirmi alla cieca. Venuto il momento, vorrei poter avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nello stesso tempo di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito.
Non potrei augurarmi una tale morte. Mi sembra importante dichiararlo. Non vedo, infatti, come potrei rallegrarmi del fatto che questo popolo che io amo venisse indistintamente accusato del mio assassinio. Sarebbe pagare a un prezzo troppo alto ciò che verrebbe chiamata, forse, la “grazia del martirio”, doverla a un Algerino, chiunque sia, soprattutto se egli dice di agire in fedeltà a ciò che crede essere l’Islam.
So di quale disprezzo hanno potuto essere circondati gli Algerini, globalmente presi, e conosco anche quali caricature dell’Islam incoraggia un certo islamismo. E’ troppo facile mettersi la coscienza a posto identificando questa via religiosa con gli integrismi dei suoi estremismi.
L’Algeria e l’Islam, per me, sono un’altra cosa, sono un corpo e un anima. L’ho proclamato abbastanza, mi sembra, in base a quanto ho visto e appreso per esperienza, ritrovando così spesso quel filo conduttore del Vangelo appreso sulle ginocchia di mia madre, la mia primissima Chiesa proprio in Algeria, e, già allora, nel rispetto dei credenti musulmani.
La mia morte, evidentemente, sembrerà dare ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo, o da idealista: “Dica, adesso, quello che ne pensa!”. Ma queste persone debbono sapere che sarà finalmente liberata la mia curiosità più lancinante. Ecco, potrò, se a Dio piace, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i Suoi figli dell’Islam così come li vede Lui, tutti illuminati dalla gloria del Cristo, frutto della Sua Passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre di stabilire la comunione, giocando con le differenze.
Di questa vita perduta, totalmente mia e totalmente loro, io rendo grazie a Dio che sembra averla voluta tutta intera per questa gioia, attraverso e nonostante tutto.
In questo “grazie” in cui tutto è detto, ormai della mia vita, includo certamente voi, amici di ieri e di oggi, e voi, amici di qui, insieme a mio padre e a mia madre, alle mie sorelle e ai miei fratelli, e a loro, centuplo regalato come promesso!
E anche te, amico dell’ultimo minuto che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo “grazie”, e questo “a-Dio” nel cui volto ti contemplo. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in Paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due.
Amen! Inch’Allah.
Algeri, 1° dicembre 1993
Tibihrine, 1° gennaio 1994


venerdì 7 dicembre 2018

Dove abita Dio


GIOVANNI FRANCESCO BARBIERI IL GUERCINO, Annunciazione, Pieve di Cento (BO)

Immacolata Concezione di Maria
Gen 3, 9-15.20
Sl 97
Ef 1,3-6.11-12
Lc 1,26-38

Una festa che sta molto a cuore ai cristiani, la festa dell'Immacolata. Forse perché è la festa della speranza: ci sentiamo figli di una donna trasparente della bellezza di un Dio altrimenti così invisibile! E se chiamare Maria con il titolo di Immacolata potrebbe farcela sentire... troppo alta... irraggiungibile... in qualche modo sentiamo che in lei è scritta, come in ogni madre, anche la nostra fisionomia. Scrive infatti Paolo ai cristiani di Efeso che tutti, come lei, siamo stati scelti da Dio, in Cristo, per essere santi e immacolati nell'amore. 
"Sii felice, perché sei amata da Dio, sei piena di Dio": è il saluto dell'angelo alla fanciulla di Nazaret, sposa di Giuseppe. Un saluto che è un annuncio straordinario. E lei si chiede che senso abbia, perché, nei profeti, quella parola è rivolta da Dio a Gerusalemme, la città santa, la città dove Egli ha la sua dimora, il suo tempio.
E chi è lei per ricevere un saluto così?
E' l'amata da Dio. A lui non basta più un tempio di pietre, pur bellissime. Vuole un tempio di carne e sangue. Vuole un tempio vivo. Perché l'Invisibile, offrendo suo Figlio a Maria, vuole farsi finalmente vedere da quell'umanità che ama e desidera come sposa.
E lei davvero è come la città santa: in lei tutti siamo amati e sposati da quel Dio che è la fonte dell'amore. Ed è l'amore ricevuto e ridonato che vince ogni difetto, ogni limite, ogni peccato. L'amore rende immacolati. E felici.
Maria è invitata ad essere felice, perché Dio è con lei e la ama. Il desiderio profondo, radicale, di tutti, è la felicità. E' la nostra vera vocazione. Eppure ci sfugge sempre la felicità, ovunque la cerchiamo, per quanti sforzi facciamo. Ma può essere solo opera nostra la felicità? La tribolazione, l'incertezza, il dolore sembrano i compagni più fedeli. E sono stati i compagni fedeli anche della vita di Maria, nonostante il saluto dell'angelo.
E' un'illusione il Vangelo? Un'illusione la parola dell'angelo?
Una pia fuga dalla realtà la festa dell'Immacolata?
Maria, nella sua vita di sposa di Giuseppe, di madre di un bambino che proprio non sembra Dio, di cittadina sottoposta alle esigenze della legge, di innocente perseguitata e migrante con la sua famiglia, di casalinga, vedova, donna sola, madre di un condannato alla croce, anche quando non comprende  ciò che accade, è donna della fede. Donna che ascolta la Parola di Dio. E dunque sa che Dio è con lei, che è amata da Dio. E da Dio lei attende un senso, anche quando nella notte la pietra chiude il sepolcro. E scopre che l'amore vince ogni morte. L'amore che è Dio e può abitare in noi.


domenica 2 dicembre 2018

Con il capo alzato


BEATO ANGELICO, Cristo giudice, Duomo di Orvieto

Prima domenica di Avvento C
Ger 33, 14-16
Sl 24
1 Ts 3,12-4,2
Lc 21, 25-28.34-36

Conosciamo tutti l'angoscia, l'ansia, il fragore della tempesta nel cuore e nella mente, la paura del pericolo imprevisto, del dolore... E arriva il momento in cui i cieli sono sconvolti. I cieli: ciò in cui abbiamo riposto attese e speranze,  ciò in cui abbiamo creduto di trovare il senso della vita... anche realtà buone, significative... ma infine solo umane. Sì, spesso facciamo di realtà umane, pur belle e significative e buone, i nostri cieli, cioè i nostri idoli, la speranza e il senso della vita. E arriviamo a sperimentarne tutta la fragilità e la limitatezza. Scopriamo che non sono i cieli. 
Nell'umanità e nel mondo possono nascondersi e risplendere i cieli, ma occorre saperli ritrovare, scoprire, ascoltare. Non confonderli né con l'umanità, né con il mondo.
Una sola è l'Umanità in cui i cieli si fanno vicini a noi e davvero diventa il senso della vita: l'Umanità del Cristo, nato da donna, crocifisso e risorto, che viene sulle nubi. L'Umanità del Figlio di Dio che viene a noi con grande potenza e gloria. Mi pare che questa espressione ci si riveli straordinariamente nell'opera del Beato Angelico: Gesù regge con la mano sinistra (quella del cuore) e sulle ginocchia quel mondo, che ha tanto amato fino a dare se stesso.
Perciò, proprio quando sperimentiamo dolorosamente la fragilità delle realtà umane e naturali, quando la finitezza e la mortalità sembrano avere il sopravvento, solleviamo il capo: la nostra liberazione è vicina. E' ciò che accade alla donna, che urla nelle doglie del parto ma da quel dolore fiorisce la gioia più profonda e ineffabile; è ciò che accade al bimbo che  da una forza sconvolgente e inarrestabile è spinto dolorosamente  fuori dal suo limitato mondo, verso la vita.
Il Figlio dell'uomo che viene sulle nubi è Colui che vince la morte che quotidianamente ci aggredisce in mille modi. La sua potenza è la forza dell'amore, la sua gloria siamo noi, salvati a prezzo di sangue. In mezzo agli sconvolgimenti, ai fallimenti, alle debolezze, possiamo sempre avere la certezza di essere nelle sue mani, sulle sue ginocchia. 
Resta sempre la tentazione di ubriacarsi con mille illusioni, di disperdersi nei cammini senza meta della disperazione, di dissetarsi a miraggi di cisterne vuote. Nella lotta quotidiana tra la vita e la morte, occorre mantenersi vigili con la preghiera per essere più forti di ogni morte, tanto da comparire davanti al Figlio dell'uomo, come Eva davanti a Adamo, carne dalla stessa carne, ossa dalle stesse ossa. 
Risollevati. Con il capo alzato, nella dignità dell'amore.


domenica 25 novembre 2018

Attenzione alla luce


DUCCIO DI BUONINSEGNA, Cristo davanti a Pilato

Solennità di Cristo Re dell'universo
Dn 7,13-14
Sl 92
Ap 1,5-8
Gv 18,33-37

A volte conviene, specie a una certa età, farsi le foto non in piena luce. Altrimenti si notano troppo i difetti... nonostante il trucco. Tutti abbiamo paura del buio, ma forse ne abbiamo anche della luce. Ci sentiamo più tranquilli in penombra. Riusciamo meglio a mimetizzarci, anche davanti a noi stessi.
La penombra è la condizione in cui le maschere possono sembrare... naturali.
Anche Pilato, trovatosi suo malgrado nella circostanza di dover decidere della sorte di un poveraccio incorso nella gelosia dei potenti sacerdoti d'Israele, collusi con il potere di Roma, indossa come naturali le insegne del potere e la faccia del giudice. Ma stavolta anche lui, Pilato, pare subire un disagio: quel giudicato che non grida, non si difende, non chiede pietà... pare che si illuda di poter scambiare i ruoli. Forse è solo un povero pazzo, neanche pericoloso. O forse hanno ragione i capi dei sacerdoti: troppo pericoloso. 
Come la luce. 
La luce è vita. La luce testimonia la verità, fa venire allo scoperto tutte le nostre morti, i nostri angoli tenebrosi, per vincerli. Se non ci nascondiamo. Come Pilato. 
In mezzo alle tenebre della gelosia, dell'odio e dell'ingiustizia violenta, alla morte che è il fallimento del bene operato solo per amore, Gesù di Nazaret, giudicato da quella moribonda umanità che vuole salvare, non ha paura, non si nasconde dietro a discorsi demagogici o diplomatici. E' il testimone della verità. E' questo il senso di tutta la sua esistenza.
Il testimone della verità di se stesso. Ma anche della mia verità. Se posso accoglierla. Se non la temo. Se non mi nascondo.
In mezzo alle tenebre della menzogna, egli è il Cristo, il messaggero della verità; è il Re, il testimone della verità, che è l'amore. E' il Re a servizio della vita dell'umanità. Per questo è arrestato, umiliato, torturato. 
Davanti a lui, sottoposto a giudizio, devo scegliere se e come rispondere alla sua domanda: "Lo dici da te stesso che io sono re?". La mia risposta è un giudizio su di lui. E su di me.
Davanti a lui, ogni giorno, se non temo la sua luce che uccide e dà vita, saprò chi sono. E verrò alla vita, ogni giorno.
Pilato ha scelto la morte del non sapere.



domenica 11 novembre 2018

Scriteriate


RUPNIK M., Elia e la vedova di Sarepta

XXXII domenica T.O.

1 Re, 17, 10-16
Sl 145
Eb 9, 24-28
Mc 12, 38-44

A volte la Parola di Dio contraddice prepotentemente i nostri pensieri, il nostro buon senso, i nostri criteri di vita pur buoni e onesti.
Certamente va colto il messaggio profondo di una Parola che ci viene offerta come impastata in culture e situazioni storiche estremamente lontane da noi; è poi quel messaggio profondo che va incarnato nella cultura e nella storia che viviamo. Ma comunque la prendiamo, la Parola di oggi ci mette a disagio.
Ci vengono proposte come modello due vedove ridotte in miseria. Al tempo di Elia, durante la siccità, e al tempo di Gesù, come faceva una vedova a non ridursi in miseria?
Quei pochi spiccioli che poteva raggranellare magari spigolando o filando doveva contarli e ricontarli prima di spenderli per mangiare. E quella povera donna di Sarepta, non avendo più che un pugno di farina e un goccio di olio, si era rassegnata a morire con suo figlio. Una pagana. Forse aveva pregato tutti i suoi dei, ma non aveva trovato soccorso.
Un giorno, però, il soccorso arriva... ma nella persona di uno più povero di lei, che proprio a lei chiede da mangiare. No, non sono i suoi dei a mandarle un aiuto, ma il Dio di Israele, di cui lei, forse, non sa nulla. Sarà la disperazione che induce quella donna a credere alle parole di Elia? Comunque, quello che fa ci appare come una follia. Ma agli occhi del Dio di Israele, alla cui presenza Elia sta, quella follia è fede. Una fede che ha il profumo della carità. Messe insieme, queste due virtù, fanno una miscela ... scriteriata ... ma esplosiva. 
Fanno esplodere la provvidenza di Dio. Toccano il suo cuore.



L'offerta della vedova povera, S. Apollinare Nuovo, Ravenna

L'altra vedova è contemporanea di Gesù e un giorno incontra il Maestro nella sala del tesoro del tempio di Gerusalemme. Lei neanche se ne accorge. Quante volte non ci accorgiamo della presenza di Dio nella nostra vita! Ma a lui non sfugge. Lui ha occhi per tutti e soprattutto legge dentro, nel cuore, di coloro che osserva.
Sono tanti quelli che passano a gettare offerte nel tesoro: è un dovere per i fedeli israeliti fare offerte al tempio; sono il segno dell'amore a Dio, ai suoi sacerdoti, al suo tempio.
I ricchi fanno offerte pesanti, che si sentono quando cadono tintinnando. E poi vengono anche annunciate ad alta voce. Così si scatena una specie di gara, a dimostrazione della ricchezza che fa coppia con il potere; a dimostrazione della devozione e della generosità, che attendono poi ringraziamenti e riconoscimenti. Anche in certi nostri santuari ci sono lapidi con scritti i nomi dei ricchi offerenti. Resteranno in piedi le nostre pietre?
Poi passa quella scriteriata vedova: le sono rimasti due spiccioli per sopravvivere in giornata .. e li getta nel tesoro. Un'offerta risibile assolutamente inutile.
Eppure Gesù resta incantato da quella follia. Anche in lei fede e carità diventano miscela esplosiva, commuovono Dio. A fronte del disprezzo di tanti altri.
Ma forse, in lei, Gesù si rispecchia, la sente estremamente simile a sé. Sì, quella donna per noi scriteriata è immagine e profezia di un'altra offerta scriteriata: quella che Gesù farà di se stesso, sulla croce, per ridare vita alla moltitudine dei peccatori.
Anche di questa Parola di oggi occorre metterci in ascolto ... nonostante ci sembri scriteriata.


domenica 4 novembre 2018

Il segreto della felicità


GIOTTO, Il bacio di Gioacchino e Anna, Padova, Cappella degli Scrovegni

XXXI domenica tempo ordinario

Dt 6,2-6
Sl 17
Eb 7,23-28
Mc 12, 28-34

Ascoltare: radice e frutto dell'amore, e l'amore è l'unica felicità.

"Ascolta, Israele": premessa al più grande comandamento, l'unico, l'Amore.
Solo chi ascolta accoglie e comprende l'altro, sia uomo, donna o Dio. Solo chi ascolta entra in comunione con l'altro, comprende e apprezza ciò che l'altro pensa, desidera, comprende, ama. Impara a condividerlo. 
"Ascolta, Israele, così conoscerai il tuo Dio e imparerai a pensare e desiderare e amare come Lui, e sarai felice".

Pare proprio che la felicità di Dio dipenda dalla nostra. Egli ama parlarci, perché se impariamo a comprenderlo e a vivere secondo il suo pensiero e il suo amore, saremo felici.
Non è forse vero che ogni padre e ogni madre è felice, se i figli sono felici? Non è forse vero che ogni amante è felice se è felice l'amato o l'amata? La nostra felicità sta a cuore a Dio.

Forse ci stupisce che uno studioso, un esperto e un maestro della Scrittura chieda a Gesù quale sia il più grande comandamento. Si perdeva nel ginepraio di centinaia di norme che sembrava fossero necessarie per essere di Dio.
Gesù dà una risposta "elementare" di una semplicità... "divina". Perché "Dio è semplice, noi siamo complicati, perciò non capiamo Dio" mi disse un mio grande professore di filosofia, un francescano, un uomo di Dio.
E Gesù cita la Scrittura, scegliendo la Parola che le riassume tutte: "Ama Dio e l'umanità".
Veramente nella Scrittura i due termini di questo unico comando non sono insieme, sono in due libri diversi. Gesù li unisce in modo indissolubile.E' come un matrimonio - non stiamo parlando di amore? Non è forse l'umanità la sposa di Dio? Non è forse la Chiesa la sposa di Cristo? E ogni uomo e ogni donna non può amare Dio senza amare l'umanità, ma non saprà mai amare l'umanità - così affascinante e difettosa - senza amare Dio, la fonte incantevole dell'amore.
Gesù sposo dell'umanità peccatrice è il sacerdote dell'amore, perché fa di se stesso l'offerta perfetta a Dio, l'unica gradita, che salva, rende viva eternamente la sua sposa.
Forse proprio gli sposi che nell'amore di Dio gioiosamente e faticosamente si amano, si offrono reciprocamente, donano vita - sacerdoti dell'amore -, forse proprio loro sono l'icona più vera di Dio che ama e che educa all'amore, perché ci sogna felici.

giovedì 1 novembre 2018

Chi sono?


COSIMO ROSSELLI, Discorso della montagna e guarigione del lebbroso, 1482, Cappella Sistina

Solennità di tutti i santi

Ap. 7,2-4.9-14
Sl 23
1Gv 3,1-3
Mt 5, 1-12

Quelli che accettano di ricevere la felicità di Dio.
Quella felicità che vediamo espressa nella vita di Gesù di Nazaret. Quella che sgorga dalla consapevolezza di essere poveri e piccoli, ma eternamente amati; tribolati - chi non lo è o può aspettarsi di non esserlo? - ma eternamente amati; quelli che non cercano il potere e non usano prepotenza; che cercano appassionatamente la giustizia, che è la verità e l'amore di Dio; che offrono misericordia perché consapevoli di essere "misericordiati"; che hanno occhi limpidi di fanciulli capaci di godere della bellezza di Dio anche in mezzo alla polvere; che spendono la vita per diffondere quella pace che è l'opera del Padre; gli incompresi e perseguitati perché scelgono lo stesso amore e la stessa gioia del Cuore di Cristo.
Sono quelli che non si illudono di poter dare l'assalto a Dio, ma semplicemente lo ricevono in dono.
Dio è dono. Dono è l'Amore che unisce il Padre e il Figlio.
Dono è il battesimo che gratuitamente ci è stato donato, come gratuitamente siano stati messi al mondo.
Dono è la veste bianca che ci è stata data quel giorno. Che resterà bianca per la vita eterna, non perché siamo perfetti, ma perché sempre resa nuovamente candida dal sangue dell'Agnello, cioè dal sacrificio dell'amore, se accettiamo di passare attraverso la grande tribolazione, che è la lotta quotidiana a quel male che ci cerca, ci aggredisce, troppe volte ci attira. E solo la forza dell'amore crocifisso ci concede di vincere o di essere rigenerati quando perdiamo.
Chi sono i santi? Non sono gli eroi e tanto meno i super eroi. Non sono i perfetti irraggiungibili, uomini e donne di successo.
Siamo noi, i figli di Dio che è tre volte Santo e non si stanca di riversare l'acqua della sua santità nella nostra vita.
Dio è Santo, perché è Amore. Noi siamo santi se accogliamo questo Amore, l'unico che ci rende capaci di essere amabili e amanti in questo mondo e nell'altro. L'unico che ci rende eternamente uniti con coloro che amiamo e ci amano, anche se non camminano più su questa terra.
L'unico che rende santi i peccatori; amabili anche coloro che nessuno amerebbe. L'unico Amore che ci rende Figli di Dio, come Gesù. Felici della sua felicità di uomo pienamente realizzato, nella povertà e nella tribolazione, nella mitezza e nella misericordia, nella verità e nella fame di giustizia,  nella lotta per amare a qualunque costo; nella croce e nella risurrezione. 
"Rallegratevi ed esultate perché grande è la vostra ricompensa nei cieli". E i cieli sono il Cuore di Dio nel quale già viviamo. "Dopo" sarà la pienezza.

sabato 27 ottobre 2018

La differenza


Guarigione del cieco, Cattedrale di Chartres

XXX domenica anno B
Ger 31,7-9
Sal 125
Eb 5,1-6
Mc 10, 46-52

La fede è credere che Dio cammina per le nostre strade. E che ascolta.
La fede è la forza che fa gridare oltre le ingiunzioni di silenzio che giungono da quella umanità che vorrebbe impossessarsi di Dio, da quella umanità che fa di Dio un idolo sordo ai richiami di chi è costretto a stare ai margini della strada.
C'è una folla - quelli stessi che si credono discepoli o fans di Dio - che diventa ostacolo più grande della stessa malattia o disabilità. Ma la fede, resa coraggiosa dalla sofferenza e dall'emarginazione, vede ciò che i discepoli e i fans non riescono a vedere. La folla che vede e segue colui che passa, lo indica come Gesù Nazareno.
La fede del cieco lo riconosce come Figlio di Davide, Messia, Inviato di Dio, Salvatore. E grida.
Un grido che Dio ascolta. 
Eccola la differenza tra noi e Dio. Noi siamo disturbati dal grido della fede. Ci piace il chiasso delle acclamazioni superficiali e passeggere, degli applausi emotivi.
Dio ascolta il grido di chi soffre e chiede salvezza.
Il grido di chi riconosce la propria cecità, il proprio limite.
E compie due miracoli, che mi piace chiamare conversioni.
La prima è la più difficile: converte i discepoli, che prima ostacolano il cieco, in sacerdoti-missionari: li manda a chiamare, a rialzare, a comunicare la sua parola, a fare da ponte tra Dio e l'uomo sofferente, umiliato, emarginato, cieco. Coloro che ostacolavano l'incontro, ora ne sono strumento.
Discepoli-missionari di un annuncio di salvezza: "Coraggio! Alzati! Ti chiama". 
Qualcuno ha detto anche a me, un giorno, tanti giorni, questa parola meravigliosa, questo annuncio di risurrezione. E, a mia volta, non posso più tacerlo.
E grazie a questo annuncio, il cieco getta via l'unico sostegno che aveva per vivere: il mantello con cui si copriva e nel quale, forse, raccoglieva qualche moneta. Getta via l'unica cosa in cui credeva di poter confidare, prima che passasse Gesù. E ritrova la luce: Gesù. Quel Dio che non si vanta del bene fatto, ma ne dà merito allo stesso cieco: "La tua fede ti ha salvato".
Ancora una differenza tra noi e Dio. Noi ci illudiamo di saper operare e ci gloriamo di qualche cosa che sappiamo fare. E ci piace farlo da soli, in modo che si veda e ne otteniamo riconoscimenti.
Dio è così povero, che chiede collaborazione e ci dà anche il merito del suo stesso operare.
Gesù, luce vera che illumina ogni uomo, convertici alla tua povertà che è servizio, alla tua gioia che è luce.

mercoledì 15 agosto 2018

Un segno grandioso

L’inizio del Vangelo di Luca è collocato nel tempio di Gerusalemme e il primo personaggio che vi si incontra è un sacerdote che sta svolgendo il suo ufficio, un’azione liturgica. A quest’uomo, sacerdote, il messaggero annuncia la Parola di Dio. Ma resta deluso, non trova una risposta di fede, l’accoglienza della fede. Nel luogo sacro, nel suo tempio, Dio non trova fede, nel cuore e sulle labbra del suo sacerdote.
Delusione cocente per Dio, tanto che decide di traslocare. Di cambiare sistema. Di fare una vera rivoluzione.
Da Gerusalemme, cuore della nazione, si sposta in periferia, in un paese sconosciuto. Dal tempio, cuore della città, della fede, del culto, luogo sacro per eccellenza, unico tempio dell’unico Dio, che lui stesso ha voluto, si sposta in una semplice casa, di un paese di periferia. E invece di cercare ancora un sacerdote a cui parlare (a chi parla Dio se non ai sacerdoti?), parla a una donna! C’è da sospettare che chi scrive – il medico Luca, discepolo di Paolo – si sia sbagliato. E più si va avanti a leggere il suo Vangelo, più ci si accorge che … è uno scandalo! Dal momento che Dio entra nella casa di Maria di Nazaret, la sua casa è… la carne, il ventre di quella donna. La carne di Maria di Nazaret diventa la carne di Dio, il nuovo tempio.  Lo dirà suo Figlio, il Figlio di Dio. Dirà che il suo corpo, preso dal ventre di Maria, è il tempio, che sacerdoti e capi del popolo, con la complicità dei violenti romani, potranno anche distruggere, ma in tre giorni risorgerà… e resterà in eterno! Già, pare che il Vangelo di Giovanni e la sua Apocalisse vadano molto d’accordo con il Vangelo di Luca. Un segno grandioso vede Giovanni nella sua Rivelazione: una donna incinta, partoriente. La nuova arca dell’alleanza, sacramento di Dio.
RUBENS PIETER PAUL, La donna dell'Apocalisse

Ma quel primo capitolo del Vangelo di Luca non finisce di stupirci. La rivoluzione continua.
Maria, incinta, da Nazaret va fino a casa della sua parente Elisabetta, moglie del sacerdote incredulo, diventato muto. C’è parola là dove non ci sia accoglienza della Parola? Va per compiere un servizio, ci si insegna. Aveva detto lei stessa di essere la serva del Signore e, tanto che c’è, fa anche la serva a Elisabetta. E cresce la retorica, nella festa dell’Assunta, sul servizio di Maria, sull’umiltà di Maria, che si pone a servizio esattamente come farà Gesù nel lavare i piedi dei discepoli. Tutto vero: per i seguaci di Gesù, servire è regnare. Però, nel suo Vangelo, Luca si scorda di dire che Maria ha lavato, stirato, cucinato, fatto le pulizie… perché Elisabetta è vecchia, incinta… poveretta come avrebbe fatto senza Maria? Pare che per Luca il servizio di Maria sia un altro. È un servizio divino. È il servizio “liturgico”, ma laicale, che il sacerdote non è più capace di offrire. Ormai Dio si rende presente attraverso la carne di una donna incinta, gravida della fede assoluta nella Parola ricevuta. Attraverso Maria incinta, entra Dio in casa di Zaccaria e Elisabetta. E la prima ad accorgersi di questa gloria nascosta e abbagliante è proprio Elisabetta, l’altra donna incinta. E parla, questa donna. Ma non parla da sé. Profetizza, dopo aver ascoltato il suo ventre, là dove il bambino si è messo a danzare dalla gioia, come Davide davanti all’arca dell’alleanza. Nel ventre di Maria c’è Dio e il bambino nel ventre di Elisabetta lo riconosce e lei profetizza. Pare proprio che Dio stia esagerando.
ARCABAS, Visitazione

Ed esagera ancora di più. “Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto!”.
Chissà se è lì Zaccaria, lì, ad ascoltare la moglie, ma questa è una sberla secca sulla sua bocca muta. È stato lui a non credere all’adempimento di ciò che il Signore le aveva detto, là nel tempio. Mentre quella donna di periferia ha creduto. E ora Dio sta parlando per bocca di donne incinte. E pensare che, dopo aver partorito, saranno considerate impure: povero Dio, il più delle volte frainteso, inascoltato, incompreso… tradito, da chi crede di essere esperto e autorizzato a interpretarlo!
Eccolo il servizio vero di Maria, in casa di Elisabetta. Avrà anche lavato, cucinato, pulito… ma il servizio vero, per cui Dio le ha messo in cuore la volontà di viaggiare fino a casa di Elisabetta, è la profezia, l’annuncio dell’amore di Dio che lei canta danzando:
"L'anima mia magnifica il Signore
e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
perché ha guardato l'umiltà della sua serva.
D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
Grandi cose ha fatto per me l'Onnipotente
e Santo è il suo nome;
di generazione in generazione la sua misericordia
per quelli che lo temono.
Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato i ricchi a mani vuote.
Ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia,
come aveva detto ai nostri padri,
per Abramo e la sua discendenza, per sempre".
Il canto di una rivoluzione divina, che mette i brividi e inebria.
Allora dobbiamo chiederci chi festeggiamo oggi: la verginella umile sottomessa e servizievole, che non ha mai pensato altro che a fare la mamma casalinga devota, o la Donna vestita di sole, guerriera vincitrice, per la sua fede e per l’amore di Dio, sulle forze del male e del potere, che grida partorendo il grido d’amore e vittoria della Croce del Figlio? Il grido del parto è il grido del suo vero servizio, che annuncia l’amore. Il grido del suo ventre aperto, segno grandioso della dignità della donna, da cui Dio parla. Come il segno grandioso del fianco aperto del Figlio. Segno grandioso del parto d’amore che è la dignità di Dio, unica gloria di ogni donna e di ogni uomo.

giovedì 14 giugno 2018

Non ci basta


JUAN DE JUANES, Ultima cena, sec. XVI

Solennità del Corpo e Sangue di Cristo

Certo, le famiglie ebree celebravano la pasqua in una sala addobbata. Perché quando è festa anche gli addobbi dicono la bellezza, la solennità, la gioia. Ma la vera bellezza era la famiglia riunita che viveva intensamente il mistero dell’amore di Dio manifestato nella liberazione e nella salvezza del suo popolo, il suo figlio primogenito. Così anche Gesù accoglie l’offerta di una sala già addobbata per la festa e lì va a celebrare la pasqua con i suoi, la sua famiglia non unita da legami naturali di sangue, ma dalla sua parola. Lo aveva detto, un giorno, lasciando molto perplessi gli uditori, soprattutto i suoi parenti: “ Chi ascolta la mia parola e la osserva è per me fratello, sorella e madre” (cf Lc 8,21). Con questa famiglia Gesù celebra la pasqua, l’ultima finché non sarà trasformata – è solo questione di ore – nella pasqua del regno, l’alleanza ultima, eterna.
Ed è alla fine che si consegna l’eredità, il testamento. L’eredità è lui stesso. Il testamento è lui stesso. Per sempre. Il suo stesso corpo offerto, sacrificato, come quello degli agnelli nel tempio. Il suo stesso sangue, versato, sparso dall’odio e dalla violenza, dall’ingratitudine e dal tradimento, dalla gelosia e dall’ingiustizia, quel sangue è il dono totale, perfetto, è il TUTTO donato, è la vita trasfusa nella morte dei suoi discepoli, di allora, di oggi, di sempre. Per renderli vivi. Per sempre.

Nella stanza addobbata a festa per la pasqua, tutto questo si compie, davanti a discepoli stupiti e inconsapevoli, incapaci di comprendere. Insomma… loro stavano aspettando qualcosa di grande: era la pasqua, dunque il momento opportuno per fare qualcosa di straordinario davanti alla folla giunta in città per la festa. Il momento di dimostrarsi messia re, consacrato di Dio, liberatore potente del suo popolo oppresso, Dio vincitore sui nuovi faraoni, vendicatore dei nemici di sempre.
In tutto il racconto di quella cena, anche se Marco e Luca parlano di sala arredata, nessuno mostra quegli arredi, nessuno li descrive. Tutto è concentrato sui gesti e le parole di Gesù, troppo sublimi e troppo umili – solo ciò che è umile è sublime - per essere compresi. Soprattutto gesti e parole non attesi, non desiderati.
Altri, appunto, erano le attese e i desideri. Ma Gesù non capisce. Tante volte – quasi sempre – abbiamo attese e desideri, facciamo richieste anche esplicite. E restiamo delusi: Dio non ci ascolta. Ha altro da darci, ma spesso non ci interessa e non lo capiamo. Nel racconto dell’ultima cena, Gesù e i suoi, pur celebrando lo stesso rito sacro della pasqua, pur condividendo la stessa cena, gli uni accanto agli altri, pare siano in due mondi diversi. Mai come in questa scena è palpabile, pesante, dolorosa la distanza tra loro. “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie”: da molti secoli così si era espresso Dio per bocca di Isaia (55,8). L’incomprensione dei discepoli e di tutto il popolo alla fine si esprimerà nel gesto più estremo: nello strazio del corpo ucciso violentemente e del sangue sparso. Proprio questa violenza perpetrata dall’odio e permessa dalla paura e dall’indifferenza, violenza che Gesù consapevolmente attende, è già trasformata, durante la cena, nell’offerta d’amore più straordinaria e incompresa.
Incompresa allora e ancora oggi, perché non possiamo neanche lontanamente sospettare che una violenza estrema dell’odio possa essere trasformata nel più libero e sublime atto di amore. La violenza subita una volta trasformata in atto di amore perenne, continuato, fedele per sempre.

E ancora non compreso. Non è, ancora oggi, ciò che noi ci attediamo da Dio. E anche quando andiamo a messa, a fare la comunione, a portare in processione il pane eucaristico, lo facciamo per chiedere ciò che desideriamo noi, non ciò che vuole darci lui.
Noi stiamo attendendo gesti di potere, spettacolari. Che compiano finalmente le nostre piccole attese quotidiane, che ci permettano di raggiungere le nostre brevi mete, di realizzare i nostri piccoli successi. Piccoli, a breve termine, ma esaltanti, spettacolari. Perché a noi interessano gli arredi. In fondo gli arredi sono quelli che dicono chi siamo. La corsa agli arredi, agli spettacoli danno significato a battesimi, prime comunioni, matrimoni… perfino funerali. E fanno la differenza.
E fiori, tappeti, musica, carrozze e limousine e elicotteri, ostensori e tovaglie e paramenti preziosi, e luminarie e fuochi d’artificio….
Noi persone, famiglie, cittadinanze, comunità ecclesiali abbiamo bisogno di visibilità e successi. Abbiamo bisogno di spettacoli per dire chi siamo e quanto valiamo e ottenere attenzione, riconoscimenti, rispetto, successo. Altrimenti che vale la vita? Chi siamo in questa società? L’amore è fondamentale nei manifesti, nelle canzoni, anche negli spettacoli e nei discorsi… ma poi dura quel tanto… Abbiamo bisogno di cose concrete! E Dio ci può essere molto utile per raggiungere quei primi posti che soli ci  permettono di esistere. Ci può essere molto utile anche per vincere le battaglie politiche. Anche la chiesa può essere uno spazio di visibilità e di successo…
                                                                  
Ma l’Amore è un pezzo di pane spezzato e un vino versato per tutti, tutti povere persone soggette a tante morti, ma amate dalla Vita, rese fratelli e sorelle, famiglia da quel pane spezzato e da quel vino versato, da quel corpo umiliato e sacrificato e da quel sangue sparso. Per Amore. Un Amore tale che si sottomette all’odio e lo vince irrimediabilmente, con una pazienza inconcepibile, infinita.
Ma è solo pane e vino. Troppo poco, troppo invisibile, troppo nascosto. Troppo amore. Solo Amore. Senza oro, senza spettacolo, senza successo.
Solo Amore che rende tutto vero oro, preziosa e invincibile la Vita. Una vita finalmente resa capace di dono, di amore sofferto e gioioso.
E a noi non basta.

venerdì 30 marzo 2018

Dopo


PHILIPPE DE CHAMPAIGNE, Ultima cena, 1602
Pasqua 2018

Capita spesso di voler capire subito.
Mentre il cuore e la mente umani sono fatti per capire dopo.
Dopo aver studiato.
Dopo aver riflettuto.
Dopo aver cercato.
Dopo aver visto e sperimentato.
Dopo aver camminato e sofferto.
Dopo aver pianto
e amato.

"Prendete, mangiate: questo è il mio corpo dato per voi. Prendete, bevete: il mio sangue versato per voi".
Mi stupisco che gli apostoli non siano fuggiti ascoltando parole così inaudite.
Come capire? Cosa?

Poi, ancora un gesto più incomprensibile, scandaloso.
E Simon Pietro esplode: "Tu questo non lo farai mai! Non mi laverai i piedi in eterno!".
Non aveva capito la questione del corpo e del sangue, ma qui cosa c'è da capire?
Lavare i piedi si capisce subito: lavoro da schiavi.

"Tu ora non capisci, capirai dopo".

ANONIMO VENETO, Lavanda dei piedi, sec XVII
Quando dopo?

Ha lavato i piedi: lavoro da schiavi.
Dopo è sulla croce: supplizio da schiavi.
"Padre, perdonali".

Là nella casa di Caifa, seduto tra i servi, Pietro non aveva più riconosciuto il suo maestro, l'amico per il quale voleva morire. Ed era sincero quando aveva detto: "Darò la vita per te". Ma poi non aveva più capito. Non lo riconosceva più. E neppure riconosceva più se stesso come discepolo di quel Galileo.
Dopo, Gesù lo aveva guardato, e il gallo aveva chiamato la luce.

Dopo alcuni giorni, dopo la paura, il buio, la fuga, il pianto, la delusione...
"Simone, mi ami?".

Dopo, l'amore si rivela.
Al contrario di come lo immagini
o aspetti.
Dopo, l'amore è ancora vivo.
E crede in te.

Ed è sempre lui:
quando mangi il suo pane spezzato
quando ti inginocchi a servire i piccoli
quando dalla croce piove il perdono.


Sia per tutti una vera Pasqua


domenica 14 gennaio 2018

La ricerca


MARKO RUPNIK, Maestro, dove abiti?

II domenica T. O.
Gv 1,35-42

Si somigliano molto l’inizio della Bibbia – che è l’inizio del libro della Genesi – con l’inizio del Vangelo di Giovanni, anche se diversi secoli separano i due autori. Ambedue i libri iniziano con il riferimento al “principio” e, se si legge in profondità, se si ascolta non solo con le orecchie, si intuisce che non si tratta del principio della storia o di una storia; sembra piuttosto un “principio” vitale, come un seme o una radice. Un cuore. Un volto. Il cuore e il volto che è Dio. E poiché Dio è impossibile all’uomo vederlo, Egli crea un modo per farsi trovare e vedere. Nel libro della Genesi, Dio imprime la sua stessa immagine nell’uomo e nella donna, perché non sia difficile o impossibile l’incontro… e l’amore. Nel Vangelo di Giovanni, Dio stesso diventa carne umana. Ormai nessuno più può dire che Dio non si vede.
Eppure l’incontro non sarà mai scontato. Perché la persona non è scontata. Né l’uomo, né Dio. E l’amore non è scontato. Ciò che è scontato ci passa davanti senza che ce ne accorgiamo.
L’amore è attrazione e desiderio, è decisione di dono e di dedizione, è passione di conoscenza e di comunione. L’amore è “principio” di vita. E quel “principio” ha il sapore e la melodia della ricerca, della domanda.
Nel libro della Genesi, è Dio, il creatore, che cerca l’umanità. La prima ricerca è scritta proprio nella creazione e nella gioia del creatore che ne contempla con amore la bellezza. Ma poi la domanda diventa “parola” di desiderio: “Dove sei?”.
Dio cerca l’umanità che ha perso se stessa e Dio. E la domanda non attende una risposta per Dio, ma per l’umanità stessa. Se non so dove sono, se non conosco e non trovo me stessa, non troverò nessuno: né donna o uomo, né Dio. “Dove sei?”: la domanda dell’amore che mi permette di sentirmi viva, desiderata, amata. Il dolore infinito è non avere nessuno che mi cerca. Solo quando mi sento cercato, posso cominciare a sapere dove sono, e chi sono, fossi anche precipitato nella valle delle tenebre.
E posso, a mia volta, cominciare a cercare: me stessa, e l’uomo e la donna, e Dio. Ed è il principio della vita. Cercare per amare, perché solo l’amore è vita. Il dolore infinito è non cercare me stessa, né Dio, e nessuno.
E anche all’inizio del Vangelo di Giovanni, una domanda: “Che cercate?”.
È sempre Dio, in Gesù, che interroga, ma stavolta è l’umanità che è in ricerca.
L’umanità cercata da Dio, ora cerca… che cosa? La domanda di Gesù ai due discepoli di Giovanni, che hanno cominciato a seguirlo, è davvero il principio, la radice, perché noi siamo ciò che cerchiamo.
Oggi a noi Gesù ripete la domanda essenziale: “Che cercate?”.
Forse questa domanda ne contiene un’altra, più radicale: “Siete cercatori?”. Solo i morti non cercano più nulla. “E che cercate?”. Da cosa o da chi cerco dipende la mia vita e anche la vita degli altri.
La ricerca indica una fame, una sete, di felicità, di vita, di amore, di senso. Sarà per questo che Gesù dice che sono beati i poveri. I poveri sono sempre alla ricerca. È la sazietà il grande rischio. Il ricevere tutto prima ancora di averlo cercato è il grande rischio. Tutto diventa insignificante e vuoto e non dà alcuna gioia. La ricerca è scomoda e affascinante, movimento interiore e fisico; è fatica, impegno, lotta. Lotta con se stessi anzitutto. E conduce a una scoperta sempre nuova di senso, a un amore sempre più profondo. Per questo, i discepoli a cui Gesù chiede “Che cercate?”, rispondono con un’altra domanda: “Dove abiti, maestro?”.
Chiedere “dove abiti?” significa cercare un’intimità con l’altro, con Colui che è l’oggetto ultimo della ricerca: Colui che solo può colmarci di senso e insieme alimentare il desiderio.
Chiedere a Gesù “dove abiti?” significa chiedere “chi sei?, dov’è il tuo cuore?”. La risposta di Gesù non è un indirizzo, ma un invito a seguirlo, a muoversi, a camminare. Egli non è una risposta statica, morta. La sua risposta invita a continuare la ricerca, ad approfondire l’incontro in un cammino sempre nuovo. Perché Dio non è un idolo di pietra o di legno, non è un’ideologia, non è una legge, ma è il Vivente. E la Vita è nuova ogni giorno.
E andarono con lui, e videro e rimasero. Dopo molti decenni da quell’incontro, l’autore annota l’ora di quell’esperienza di amore, di vita, di gioia: erano circa le quattro del pomeriggio. L’ora di Dio nella vita dei due cercatori. E da quell’ora – è ciò che scopriamo nell’ascolto del Vangelo – la loro vita fu una continua ricerca e scoperta, fu una crescita continua nel cammino del dubbio e della fede, della conoscenza di Dio, del suo amore, che si rivela come dono, accolto e offerto.
Cominciarono a quell’ora ad abitare con Gesù, che però – al contrario delle volpi che hanno le tane - non ha dove posare il capo, non ha casa. Hanno cominciato ad abitare con Lui per scoprire ogni giorno che Egli abita nel cuore di Dio e cerca casa nel cuore di ogni uomo e di ogni donna. Abitare con Lui, dunque, significa abitare il suo amore, il suo cuore. Mentre mi invita ad abitare con Lui, mi chiede di entrare da me, come lo chiese a Maria di Nazaret, e trovò casa.
E abitando con Lui, anche la mia vita trova senso: diventare dono.