giovedì 14 giugno 2018

Non ci basta


JUAN DE JUANES, Ultima cena, sec. XVI

Solennità del Corpo e Sangue di Cristo

Certo, le famiglie ebree celebravano la pasqua in una sala addobbata. Perché quando è festa anche gli addobbi dicono la bellezza, la solennità, la gioia. Ma la vera bellezza era la famiglia riunita che viveva intensamente il mistero dell’amore di Dio manifestato nella liberazione e nella salvezza del suo popolo, il suo figlio primogenito. Così anche Gesù accoglie l’offerta di una sala già addobbata per la festa e lì va a celebrare la pasqua con i suoi, la sua famiglia non unita da legami naturali di sangue, ma dalla sua parola. Lo aveva detto, un giorno, lasciando molto perplessi gli uditori, soprattutto i suoi parenti: “ Chi ascolta la mia parola e la osserva è per me fratello, sorella e madre” (cf Lc 8,21). Con questa famiglia Gesù celebra la pasqua, l’ultima finché non sarà trasformata – è solo questione di ore – nella pasqua del regno, l’alleanza ultima, eterna.
Ed è alla fine che si consegna l’eredità, il testamento. L’eredità è lui stesso. Il testamento è lui stesso. Per sempre. Il suo stesso corpo offerto, sacrificato, come quello degli agnelli nel tempio. Il suo stesso sangue, versato, sparso dall’odio e dalla violenza, dall’ingratitudine e dal tradimento, dalla gelosia e dall’ingiustizia, quel sangue è il dono totale, perfetto, è il TUTTO donato, è la vita trasfusa nella morte dei suoi discepoli, di allora, di oggi, di sempre. Per renderli vivi. Per sempre.

Nella stanza addobbata a festa per la pasqua, tutto questo si compie, davanti a discepoli stupiti e inconsapevoli, incapaci di comprendere. Insomma… loro stavano aspettando qualcosa di grande: era la pasqua, dunque il momento opportuno per fare qualcosa di straordinario davanti alla folla giunta in città per la festa. Il momento di dimostrarsi messia re, consacrato di Dio, liberatore potente del suo popolo oppresso, Dio vincitore sui nuovi faraoni, vendicatore dei nemici di sempre.
In tutto il racconto di quella cena, anche se Marco e Luca parlano di sala arredata, nessuno mostra quegli arredi, nessuno li descrive. Tutto è concentrato sui gesti e le parole di Gesù, troppo sublimi e troppo umili – solo ciò che è umile è sublime - per essere compresi. Soprattutto gesti e parole non attesi, non desiderati.
Altri, appunto, erano le attese e i desideri. Ma Gesù non capisce. Tante volte – quasi sempre – abbiamo attese e desideri, facciamo richieste anche esplicite. E restiamo delusi: Dio non ci ascolta. Ha altro da darci, ma spesso non ci interessa e non lo capiamo. Nel racconto dell’ultima cena, Gesù e i suoi, pur celebrando lo stesso rito sacro della pasqua, pur condividendo la stessa cena, gli uni accanto agli altri, pare siano in due mondi diversi. Mai come in questa scena è palpabile, pesante, dolorosa la distanza tra loro. “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie”: da molti secoli così si era espresso Dio per bocca di Isaia (55,8). L’incomprensione dei discepoli e di tutto il popolo alla fine si esprimerà nel gesto più estremo: nello strazio del corpo ucciso violentemente e del sangue sparso. Proprio questa violenza perpetrata dall’odio e permessa dalla paura e dall’indifferenza, violenza che Gesù consapevolmente attende, è già trasformata, durante la cena, nell’offerta d’amore più straordinaria e incompresa.
Incompresa allora e ancora oggi, perché non possiamo neanche lontanamente sospettare che una violenza estrema dell’odio possa essere trasformata nel più libero e sublime atto di amore. La violenza subita una volta trasformata in atto di amore perenne, continuato, fedele per sempre.

E ancora non compreso. Non è, ancora oggi, ciò che noi ci attediamo da Dio. E anche quando andiamo a messa, a fare la comunione, a portare in processione il pane eucaristico, lo facciamo per chiedere ciò che desideriamo noi, non ciò che vuole darci lui.
Noi stiamo attendendo gesti di potere, spettacolari. Che compiano finalmente le nostre piccole attese quotidiane, che ci permettano di raggiungere le nostre brevi mete, di realizzare i nostri piccoli successi. Piccoli, a breve termine, ma esaltanti, spettacolari. Perché a noi interessano gli arredi. In fondo gli arredi sono quelli che dicono chi siamo. La corsa agli arredi, agli spettacoli danno significato a battesimi, prime comunioni, matrimoni… perfino funerali. E fanno la differenza.
E fiori, tappeti, musica, carrozze e limousine e elicotteri, ostensori e tovaglie e paramenti preziosi, e luminarie e fuochi d’artificio….
Noi persone, famiglie, cittadinanze, comunità ecclesiali abbiamo bisogno di visibilità e successi. Abbiamo bisogno di spettacoli per dire chi siamo e quanto valiamo e ottenere attenzione, riconoscimenti, rispetto, successo. Altrimenti che vale la vita? Chi siamo in questa società? L’amore è fondamentale nei manifesti, nelle canzoni, anche negli spettacoli e nei discorsi… ma poi dura quel tanto… Abbiamo bisogno di cose concrete! E Dio ci può essere molto utile per raggiungere quei primi posti che soli ci  permettono di esistere. Ci può essere molto utile anche per vincere le battaglie politiche. Anche la chiesa può essere uno spazio di visibilità e di successo…
                                                                  
Ma l’Amore è un pezzo di pane spezzato e un vino versato per tutti, tutti povere persone soggette a tante morti, ma amate dalla Vita, rese fratelli e sorelle, famiglia da quel pane spezzato e da quel vino versato, da quel corpo umiliato e sacrificato e da quel sangue sparso. Per Amore. Un Amore tale che si sottomette all’odio e lo vince irrimediabilmente, con una pazienza inconcepibile, infinita.
Ma è solo pane e vino. Troppo poco, troppo invisibile, troppo nascosto. Troppo amore. Solo Amore. Senza oro, senza spettacolo, senza successo.
Solo Amore che rende tutto vero oro, preziosa e invincibile la Vita. Una vita finalmente resa capace di dono, di amore sofferto e gioioso.
E a noi non basta.